domenica 11 novembre 2012

Storie di giornalismo ambientale a Ecomondo2012



E’ la prima volta che è accaduto. Tutto il mondo dei media italiani ambientali si è confrontato in un open talk nello spazio World Web e sostenibilità, il 9 novembre ad Ecomondo. L’evento che dal 7 novembre si è svolto a RiminiFiera e che ha ospitato gli Stati Generali della Green Economy.“Oggi vogliamo ascoltarvi, vogliamo capire quello che le aziende possono fare per aumentare la conoscenza dei temi ambientali che stanno diventando importanti”, spiega il presidente di AssoScai, Giuseppe Lanzi. E poi “C’era una volta il giornalismo ambientale”: la provocazione di Massimo Scalia, critico, padre dei movimenti ambientalisti italiani. Una memoria storica. “Ci sono stati grandi giornalisti. Ci sono stati periodici, adesso 


ci sono periodici con molti più gruppi editoriali”. E si è da sempre manifestato il problema dell’incomprensione dell’ambientalismo sui grandi media. L’esempio ci viene dalla battaglia contro il nucleare. “Negli anni ottanta l’ambiente veniva citato solo se faceva folklore. Se volevi andare sui giornali bastava mettere una maschera antigas e un camice bianco. Andavano le foto sui giornali delle manifestazioni in Francia e in Germania contro le centrali nucleari. Eppure In Italia si sono fatte battaglie contro centrali che si dovevano fare e non si sono fatte- ha  aggiunto Scalia- L’unica vera attenzione viene concessa ai movimenti ambientalisti con lo scoppio di Chernobyl, cinque secondi di intervista o dieci secondi al Tg”. Una volta, in effetti, non c’era un giornalismo ambientale. Per accorgersi del divario di attenzione fra le testate estere e quelle italiane su questioni ambientali, basterebbe notare come sulla rivista Nature è stato redatto l’editoriale sui cambiamenti climatici, e ha utilizzato tutti i mezzi possibili per far capire all’opinione pubblica che la minaccia non è stata mai così alta. Per l’Italia la questione dei cambiamenti climatici è soltanto futuribile. Si ignora la presa di posizione delle accademie scientifiche. C’è un bassissimo livello di cultura scientifica”. La pensa allo stesso modo, il direttore di E-gazette, Lorenza Gallotti, presente all'incontro: “Il popolo italiano ha una scarsa cultura scientifica e allo stesso tempo soltanto se vengono toccati economicamente i paesi sviluppati si renderanno conto dell’importanza di fenomeni come quello del cambiamento climatico”. Poi è stato il turno di Roberto Rizzo di ZeroEmission che spiega la tendenza a
"vedere" la  notizia quando ci sono le catastrofi:“ Il genere umano è attivo in caso di catastrofi. A volte le persone non sanno del pericolo. Non può il giornalismo limitarsi alla spiegazione delle cause di determinate catastrofi, ma deve anche spostare l’attenzione sugli aspetti economici e culturali. Il futuro è dettato da scelte politiche, si possono limitare i danni.” La discussione induce a ulteriori interrogativi: “E’ l’informazione che manca su fenomeni come quelli climatici o il lettore è disattento?”, ha chiesto Veronica Caciagli di Italian climate network.“Il movimento per il clima ha realizzato un e-book con il"manuale anti-bufala" per sfatare i miti sul clima- ha dichiarato- All’estero c’è più formazione, noi dobbiamo attendere le catastrofi per vedere delle reazioni” . Ma occorre che gli operatori delle informazioni, per primi, sappiano di cosa parlano, come sottolineato da Mario Barbarisi: “Il giornalista deve essere informato prima di informare, per questo è nata Greenaccord. Ci rivolgiamo proprio ai giornalisti. Il tema ambientale è stato importante. Però l’esigenza di comunicare una stampa specifica di settore appartiene di più ai nostri giorni. Di fatti noi siamo presenti con una web tv e trent’anni fa non c’era. Bisogna stare attenti agli strumenti, riempiendo i contenitori di contenuti. Il pubblico è più competente, il giornalismo si avvicina alla scienza. Occorre una formazione specifica di settore perché è difficile distinguere i fatti dalle bufale”. Secondo Andrea Bertaglio de Il Fatto Quotidiano siamo di fornte a un problema più generale: “La stampa italiana è spesso provinciale. Ma è anche il pubblico che lo vuole. Bisognerebbe volgarizzare, con uno stile diverso le notizie ambientali.Il mio obiettivo è riuscire a parlare alle masse nei centri commerciali dall'interland milanese. Per questo ho scelto di non fare l'accademico”.
Letizia Palmisano, blogger e giornalista ambientale, lancia un ulteriore
provocazione : “ Ho iniziato ad utilizzare la rete da giovane ambientalista. Non avendo molti fondi, ho iniziato a diffondere le battaglie legate al territorio con blog tematici e mandando video e comunicati stampa. Oggi si è passati da un sistema verticale ad un sistema orizzontale di confronto e dialogo . La notizia va pensata già in termini social?”. A questo punto non poteva mancare la riflessione sociopolitica di Vittorio Pasteris, blogger e giornalista: “L’informazione passa male in modo oligarchico nelle mani dei padroni. Ad un certo punto è arrivato internet e una generazione che ha deciso di fare informazione dal basso, senza tener conto dell’ordine dei giornalisti e delle strutture politiche, senza fare la fila nelle redazioni. Facendo informazione. I media tradizionali come i giornali perderanno dalle mie previsioni il quindici e venti per cento della loro diffusione”. A rincarare la dose Simona Falasca di GreenMe: “l’utente sceglie le fonti e quindi il suo palinsesto. Dal punto di vista ambientale succede che con i nuovi media cambia il modo in cui viene veicolato il messaggio. I social network hanno cambiato il modo di fare giornalismo nella forma e per l’immediatezza. Si utilizzano le immagini. Permettono di raggiungere i fruitori che non sono ambientalisti”. Daniel Tarozzi, direttore de Il cambiamento con un intervento da Skype racconta delle sua esperienza in giro dal Nord al Sud in camper: “ Volevo andare direttamente sui posti dove ci sono persone che agiscono nell’ambiente senza aspettare che lo faccia qualcuno al loro posto, lontano dalle informazioni che ci vengono fornite dai principali media”. Eppure, secondo Alberto Fiorillo di Legambiente i social network presentano dei paradossi:
“E’ ovvio che i social sono innovativi. Ma c’è un aspetto patologico: la sindrome da click. Ossia raccattare più “I like” possibili. Più condivisioni e più utenti.
Non cambia a seconda delle testate dei social. Ci sono tre modi di concepire le fruizioni : rapida, che non si ferma neanche sette secondi sulla pagina. E’ quella maggioritaria nelle rete. Chi fa informazione ambientale,a mio giudizio non dovrebbe occuparsi di questo tipo di fruitore del web.
Ci sono quelli che cercano le informazioni immediate come l’orario dei treni e poi c’è l’approfondimento: il vero pubblico a cui mirare. E’ sicuramente più di nicchia ma ha un interlocutore maggiore”. Per questo,
secondo Fiorillo, non può essere considerato il social network come un media tradizionale perché è soprattutto interazione e condivisione. Molto meglio, invece, chiedersi "cosa posso fare io?" e non "Cosa possono fare i mezzi di comunicazione per me?" “Un esempio è la campagna #Salvaciclisti, nata con sei blog- ha aggiunto Fiorillo- Il tessuto sociale era già pronto ad accogliere quel tipo di messaggio. Era necessario declinare quel messaggio nei modi giusti. A Londra il Times ha effettuato una campagna analoga, e le manifestazioni hanno portato in piazza 10.000 persone. A Roma il 28 aprile ne erano 50.000.In piazza c’erano molte più persone dei click della pagina Facebook del gruppo #salvaciclisti. Antonio Ferro, titolare di Extra, società di comunicazione d’impresa ambientale, racconta : “Quando con Andrea Poggio, qui presente, fondammo la nuova ecologia nel 1973-74, eravamo soltanto due studenti di ingegneria che volevano difendere gli operai in fabbrica, e quindi ecologisti di sinistra. Da allora la comunicazione ambientale è cambiata e si fa in modo diverso. Le imprese sono molto più preoccupate di ciò che va a finire in rete e non di quello che va sui giornali. In rete le notizie restano: è un mezzo rivoluzionario. Il problema è la credibilità, come aumenta la credibilità di chi opera su internet?. La rete può individuare i target per le informazioni che interessano. Ciò che manca è il piacere di approfondire. C’è un bombardamento di informazioni ed i ragazzi in sette secondi non riescono a distinguere le informazioni buone da quelle cattive”. Matteo Campofiorito ha chiarito, “Con Greenstyle approfondiamo con il web le notizie. E spesso bastano soltanto 140 caratteri”. Alma Grandin del Tg1 ci ricorda:“Le notizie dipendono dal taglio: possono essere economiche, sociali o di cronaca. La bravura del giornalista consiste nel capire il giusto taglio da attribuire ad una determinata notizia”.
Paolo Hutter di Ecodallecittà : “Il web ci consente di raggiungere con facilità un pubblico più ampio ma allo stesso tempo la rete è di per sè irrazionale, e rischia di trasmettere facilmente delle paure. I giornalisti ambientali sono uno sciame che dovrebbe fare  da filtro per il pubblico”. Il finale è di Walter Ganapini di Sisifo: “Dopo tre giorni che ero su Facebook, mi accorsi che c’era un elemento provocatorio per il ruolo che svolgevo nella finta emergenza Campana dei rifiuti. Dobbiamo con i nuovo media saper veicolare fra le Best available information e le Best needed information. E’ il validatore terzo indipendente che garantisce se la notizia è buona. Si è persa una grande occasione per il giornalismo ambientale quando c’era la possibilità di utilizzare il contributo dei giornalisti ambientali eletti per fare l’Ecoistituto sulla scorta del modello tedesco, dove i ricercatori in rete contribuiscono a formare progetti. Vinciamo soltanto se riusciamo a portare avanti il principio enaudiano del conoscere per deliberare. L’animale ferito è più pericoloso dell’animale normale, e dobbiamo quindi avere una maggiore forza di comunicazione, fortemente motivata con tutte le cifre possibili rimanendo credibili per i contenuti”.

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